Un omaggio alle donne invisibili dell’Italia del dopoguerra

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Il pluripremiato film d’esordio di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”, ha avuto la prima svedese al Göteborg Film Festival di quest’anno, dove si è aggiudicato il premio come Miglior Film Internazionale, ed è nelle sale in Svezia da qualche giorno. “C’è ancora domani” è una dramedy che racconta la storia di una donna alla fine degli anni ‘40 a Roma, in lotta per offrire una vita migliore ai suoi figli nonostante i maltrattamenti fisici e psichici che il marito le infligge continuamente.

 

Paola, il tuo film ha avuto la prima al Roma Film Festival e ha subito vinto tutti i possibili premi: il premio della critica e del pubblico e il premio per il miglior film d’esordio. Per una volta tutti erano d’accordo: sei rimasta sorpresa o sapevi che sarebbe stato così?

È stato un inizio fantastico! Mi sono resa conto subito che sarebbe andata bene perché il giorno della prima, alla proiezione serale, un signore in sala mi ha detto che aveva appena visto il film ma che si era ricomprato il biglietto per vederlo immediatamente di nuovo. A quel punto ho capito che era un film che toccava il pubblico nel profondo.

 

Un uomo! È interessante: ci si sarebbe aspettati che sarebbe stato un film che coinvolgeva principalmente un pubblico femminile, dato che gli uomini non sono ritratti in modo particolarmente edulcorato…

Davvero! Ma il pubblico è stato composto per il 45% da uomini e per il 55% da donne, fino a ora. È una cosa di cui sono orgogliosa.

 

Perché pensi che sia andata così?

All’inizio avevo pensato di lanciare il film nei cinema andando a dire due parole al pubblico prima delle proiezioni, ma poi ho capito che era molto più importante essere lì dopo la fine del film. C’erano così tante persone che avevano bisogno di parlarne, specialmente quelle che avevano vissuto qualcosa di simile o che ne avevano sentito parlare dai propri genitori. Da quegli incontri sono scaturiti degli scambi molto profondi e personali, condivisioni di esperienze, racconti, emozioni e anche pianti, qualcosa che assomigliava a una terapia di gruppo. Sono rimasta in particolare molto commossa da un uomo di 60 anni che – di fronte a 500 estranei in una sala cinematografica – ha condiviso il suo tragico vissuto infantile: lui e i suoi fratelli chiusi a chiave in una stanza per non assistere a qualcosa di terribile e inesplicabile tra i genitori, che da bambino non sapeva comprendere. Qualcosa che lo ha traumatizzato per tutta la vita. Allo stesso modo, è stato toccante quando una donna nel pubblico si è alzata e ha detto: “questa è stata la mia storia”.

 

Come un’esperienza collettiva?

Sì, penso che sia stata come nelle sale cinematografiche degli anni ‘50 in Italia, dove si partecipava a una proiezione come fosse qualcosa di realmente accaduto e tutti mostravano le proprie emozioni senza inibizioni. Applaudivano, piangevano, urlavano, ridevano, si arrabbiavano, commentavano. È stato allora che ho capito di aver raggiunto il pubblico.

 

C’è una scena nel film che ha colpito moltissimo il pubblico: quella in cui la violenza è rappresentata come una danza. Cosa ti ha portata a questa scelta stilistica?

Volevo assicurarmi che il pubblico capisse che quella scena non riguardava solo un singolo evento. Per far capire che si trattava di qualcosa di continuativo, ho scelto di rappresentarlo come una sorta di rituale che si ripete sempre uguale. Durante la “danza”, la donna viene picchiata più volte e i lividi crescono e scompaiono, e poi spuntano di nuovo in altri punti del suo viso, per indicare che questo accade in più occasioni. La mia intenzione era creare una narrazione rituale, un evento circolare in cui tutti giocano il loro ruolo e tutto rimane invariato.

 

È una scena intensamente spiacevole, ma non viene da chiudere gli occhi. Diventa quasi un po’ surreale.

Sì, esattamente. Non volevo creare una scena così brutale da far distanziare lo spettatore e renderlo emotivamente insensibile, come può succedere nei film con molta violenza. Volevo fare qualcosa che suscitasse interesse su un piano più profondo, che catturasse l’attenzione dello spettatore. Per ottenere questo effetto ho scelto di utilizzare il brano di Mina “Nessuno” come musica, scegliendo però la cover di Petra Magoni dove lei interpreta la canzone in modo talmente cupo che le parole assumono un significato minaccioso. Nessuno ci può separare, staremo insieme per l’eternità non suonano più come parole d’amore ma come una minaccia: la donna non può essere libera, è costretta a rimanere con il marito per sempre. In questo modo volevo anche affrontare il problema di alcuni uomini che credono di “amare” una donna quando in realtà provano solo un egoistico desiderio di possesso per lei, al punto da uccidere la propria compagna se interrompe la relazione. In Italia si consuma un femminicidio ogni 72 ore e sono numeri spaventosi che vengono però anche “normalizzati” in qualche modo, accettati con rassegnazione, proprio come sembrava quasi “normale” che alcune donne venissero picchiate dai loro mariti negli anni ‘50. La violenza fisica è solo la punta dell’iceberg: ci sono molte altre forme di oppressione alle quali le donne continuano a essere esposte oggi che hanno le loro radici nella medesima visione patriarcale: dalle paghe più basse, al carico di lavoro in casa e per i figli. Il patriarcato continua a essere forte oggi.

 

Il tuo film è riuscito a suscitare un enorme dibattito nei media italiani, cosa di cui ti voglio personalmente ringraziare! Cosa è successo?

Penso che sia stato il film giusto al momento giusto. La società aveva bisogno di parlare di qualcosa che è sempre stato un tabu pur essendo sotto gli occhi di tutti, e prendere posizione contro la cultura della violenza e dello stupro. Il caso Cecchettin scoppiato dopo la prima del film ha portato oltre mezzo milione di manifestanti in piazza per la manifestazione legata alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre. È stato incredibile!

 

Senza svelare troppo del finale del film, puoi dirmi perché hai scelto di raccontare questa storia? È qualcosa che è successo nella tua famiglia?

Non in quel modo, non ci sono stati episodi di quel tipo di violenza nella mia famiglia. Ma mia nonna viveva in un caseggiato come quello che mostro nel film, con molte scale che davano su un cortile interno dove tutti si incontravano. Tutti sapevano tutto su quello che succedeva e in qualche modo “accettavano” che fosse inevitabile. All’epoca era così, e ho voluto affrontare la problematicità di questa normalizzazione. Ma soprattutto volevo raccontare tutte queste donne invisibili dell’Italia del dopoguerra, donne che non pensavano di valere niente anche se lavoravano giorno e notte dentro e fuori casa, prendendo lavoretti saltuari qua e là, per due spicci, pur di mantenere la famiglia e dare ai figli una possibilità di studiare oltre le elementari invece che mandarli a lavorare, nonostante la povertà. Sono queste le donne che volevo celebrare, quelle di cui nessuno parla. È giusto e sacrosanto ricordare tutte quelle donne partigiane che sono poi diventare figure chiave della politica italiana del dopoguerra, ma in questo film io volevo invece mettere in evidenza proprio quelle donne che non pensavano di valere o significare nulla per la società, ma che sono state altrettanto importanti per costruire il nostro Paese.

Intervista di Monica Mazzitelli a Paola Cortellesi
L’intervista originale, in svedese, é stata pubblicata sulla rivista Parabol
Foto di Francesco Petrucci – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15304536