Da circa un mese ogni mattina mi alzo e piango. Mi sveglio da una notte parzialmente insonne, vado in bagno, mi siedo al tavolo della cucina e piango. Non perché fuori sembra novembre quando siamo ancora in agosto o perché devo andare a lavorare anche oggi. Piango per quello che sto mangiando.

Davanti a me ho una ciotola con una sbobba grigia e un cucchiaio in mano. Affondo la posata nel cibo, prendo un’abbondante cucchiaiata, apro la bocca e riluttante mi costringo a buttare giù un bel boccone di poltiglia calda.

Per me è uno shock. Ero abituato ad altro. Di solito prendevo latte e cereali oppure pane, burro e marmellata nei festivi. Nelle giornate di lusso cornetto e cappuccino al bar quando vivevo ancora in Italia.

Ora, invece, questa pappetta informe e incolore, che mi fa sentire un carcerato anche se non ho il pigiama a righe bianche e nere e non sto dietro le sbarre, è la mia nuova colazione. Si chiama pappa d’avena o porridge, ovvero il gröt, come dicono gli svedesi. Ho fatto questa scelta da quando mi sono schierato dalla parte svedese nella lotta agli zuccheri, da quando ho cominciato a sposare la filosofia che inquadra i carboidrati come male assoluto dell’umanità (esclusi quelli della pasta e della pizza perché ci tengo ancora a conservare la mia cittadinanza italiana) e da quando ho fatto mio il mantra che paragona gli zuccheri a Hitler, Stalin, Crudelia de Mon, il leone Scar, il Sergente Maggiore Hartman, Keyser Söze, mia moglie quando la contraddico e altri cattivoni vari della storia reale o letteraria.

Dopo le prime mattine di adattamento nelle quali mi sentivo smarrito e non sapevo da dove cominciare vedendo la mia mano che andava in automatico verso il cartone del latte, la procedura è diventata semplice. Aggiungo 300 millilitri d’acqua a 150 grammi d’avena (non Cristina). Faccio scaldare in microonde per due minuti. Mi scotto le mani prendendo la ciotola incandescente. Butto abbondanti porzioni di bacche tipo mirtilli e lamponi o purea di mele fredda dal frigorifero che vanno mescolate con l’intruglio da stregone nel tentativo di raffreddarlo e di evitare che sappia di cartone bagnato. Mi siedo comodamente a tavola dopo essermi chiesto per l’ennesima volta perché ho deciso di farmi del male e dopo aver insultato mentalmente mia moglie perché lei mi ha un po’ spinto verso questo cambiamento epocale fungendo da precorritrice. Mi becco una sberla in testa da mia moglie per il pensiero che ho appena espresso e che lei ha capito dall’espressione accigliata del mio sguardo. Comincio a mangiare bruciandosi comunque la lingua, la gola e l’esofago e provocandomi probabilmente un’ulcera gastroduodenale. Come ultimo passaggio respiro profondamente mettendomi la coscienza in pace per aver vinto una nuova battaglia e aver sconfitto quei brutti ceffi puzzosi degli zuccheri complessi. Evvai!

Evvai? Eh no!

Infatti piango ancora.

La pappa d’avena è buona. Davvero! Il gröt mi è sempre piaciuto, sin dal giorno in cui lo preparavo ai miei figli piccoli e mangiavo quello che restava per non sprecare cibo. Non mi pento quindi della mia scelta ma il gröt non ha proprio l’aspetto di un risotto allo zafferano impiattato da uno chef di un ristorante stellato. Siccome anche l’occhio vuole la sua parte e io non ho voglia di infilarmi un cucchiaio all’altezza dell’iride mi limito a piangere per annegare la tristezza della nuova routine immaginandomi dietro le sbarre, costretto a ingurgitare la sbobba che la guardia mi offre. Pensare di essere costretto a farlo, mi aiuta a superare lo shock iniziale.

Alla fine, però, sorrido grazie ad una semplice riflessione. Per le lacrime che mi provoca ogni giorno e per la mia ormai proverbiale difficoltà a distinguere la pronuncia della vocale svedese Ö dalla vocale Å, la pappa d’avena dovrebbe cambiare nome da gröt a gråt (che si traduce “pianto” in italiano).

 

Roberto Riva
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